‘Ti volevo chiedere…’
Ciao Edoardo, ero presente ieri sera all’incontro presso l’associazione Percezioni Fotografiche. Avrei una domanda da porti.
Nella fotografia reportagistica è naturale che la componente soggettiva si debba minimizzare, per cercare di non influenzare troppo il racconto della realtà col proprio punto di vista. Raccontare una storia attraverso se stessi (veicolo) e non una storia di se stessi (attore).
Ti volevo chiedere come riesci a mantenerti “distaccato”, ovvero secondo il tuo giudizio (e eventualmente quali tecniche usi) a pulire lo sguardo per documentare anche quello che non conosci e senza pregiudizi.
Il tutto senza frammentarlo con una struttura culturale, quale quella occidentale, che spesso in paesi del medio o profondo oriente, rischia di precludere la lettura oggettiva delle storie.
Partendo dal presupposto, ovviamente, che la fotografia rimanga inevitabilmente soggettiva perché dall’obiettivo la luce passa all’occhio di un osservatore che non può annullarsi, ma comunque offrire una propria lettura, che sia questa onesta, impositiva o aperta secondo vari gradi.
E’ un po’ il punto chiave dell’approccio reportagistico ed ero incuriosito di sapere come ti poni sulla questione.
grazie 😉 Sandro
Ciao Sandro,
come ti scrivevo ho preferito risponderti qui sul mio blog perché credo valga la pena spendere più di due parole sull’argomento che sollevi e anche perché penso possa interessare un gruppo più allargato di persone.
Parto da una considerazione di Scianna: la Fotografia mostra e non dimostra. Ossia è indubbio che si fotografa sempre ciò che esiste, ciò che in quel momento e in quel luogo era, ma il racconto che leggi dietro ad una foto è sempre filtrato dalla bressioniana visione dello scatto ossia dalla mente, dall’occhio e dal cuore di colui che ha premuto il pulsante e ha fatto in modo che l’otturatore si aprisse permettendo alla luce di creare quell’immagine latente che diventa poi una fotografia. Quindi anche se cerchi di essere il più distaccato possibile il risultato sarà sempre e comunque ‘condizionato’ dalla tua visione e percezione del mondo. Non esiste a mio avviso un reportage puro che documenti in modo ‘asettico’ la realtà. Sarà sempre in qualche modo alterato – ma non modificato – dalla tua sensibilità nel rapportarti con il mondo.
Come ho più volte raccontato durante l’incontro dell’altra sera, per me la fotografia è vivere e le mie fotografie sono un riflesso del mio io, di quello più intimo, di quello che, forse per educazione o per timidezza, non riesco a esprimere con le parole. Quindi dalle mie foto emerge quello che ho dentro e la realtà mostrata inevitabilmente risente di questa mia esigenza. Non potrebbe essere altrimenti. La semplice scelta del bianco e nero rispetto al colore fa assumere allo scatto delle valenze diverse.
McCurry rispondendo a una domanda molto simile alla tua, rispose che per essere dei bravi fotografi e non farsi condizionare da quello che stai vedendo bisogna avere the killer instict. In realtà, anche se per molto tempo ho considerato vera questa sua affermazione senza però riuscire a viverla, adesso sento che non è così. Credo si debba diffidare di quei fotografi che scattano restando ‘freddi’ davanti alla vita che gli passa davanti. Si rischia che alla fine, mentre magari si sta fotografando una persona che soffre, il nostro occhio si preoccupi soltanto della parte formale ed estetica come una sorta di semplice esercizio di stile.
“…Io so che a un certo punto stavo fotografando e piangendo allo stesso tempo. Penso dev’essere stato quando vidi Barney McGuigan morto. Nel mentre lo raggiunsi, le persone erano ancora accalcate presso le cabine telefoniche, proteggendosi dagli spari. Ero solo. Poi un prete arrivò e cominciò a dargli l’estrema unzione. Poi ricordo di avere fatto alcune foto. Ricordo che stavo piangedo mentre lo facevo…” Questo scrive Gilles Peress, uno dei più importanti fotogiornalisti francesi. In pratica il dovere del fotografo è quello di raccontare e di raccontare bene. Utilizzare il tempo e il diaframma corretto, essere alla distanza giusta dal soggetto, muoversi intorno per cercare l’angolazione migliore, ma non credo che una foto ‘potente’ possa essere solo una foto didascalica e impersonale.
Spero di non averti annoiato e di aver in qualche modo risposto alle tue domande.
Buona luce
Cristina Insinga" rel="external nofollow">Cristina Insinga 15 Aprile 2012 at 13:09
Hai fatto bene a pubblicare qui la lettera di Sandro.
Queste domande me le pongo quotidianamente anche io. In giro si legge spesso che un bravo fotografo reportagista deve essere distaccato dai fatti, freddo.
Ho cercato di adottare questa tecnica, ma è andata a finire che ho fatto tutto il contrario. Di fronte a certe scene non si può rimanere impassibili, per forza di cose, lo scatto sarà involontariamente dettato dal nostro stato d’animo, dalle nostre emozioni. Forse farsi trasportare troppo è anche un errore. Ci vuole la giusta misura per affrontare seriamente un reportage, e spero di farcela.
Ho davvero tantissimo da imparare, e i tuoi consigli, i post del tuo blog sono sempre di grande aiuto. Davvero. Grazie.
Edoardo 15 Aprile 2012 at 14:05
Credo sia veramente impossibile scattare senza esserne in qualche modo e a qualche livello coinvolti… Un abbraccio Cristina
antonio sarno 15 Aprile 2012 at 17:36
una foto che racconti ha bisogno da parte del fotografo di una gran dose di cinismo. le emozioni arriveranno quando sarai l’interlocutore di quella immagine.
Marco" rel="external nofollow">Marco 15 Aprile 2012 at 18:03
Ciao Edoardo,
molto interessante il tuo articolo.
Nelle mie piccole esperienze di reportage in India, sempre come fotoamatore, ho capito, almeno per quanto mi riguarda, che non è possibile rimanere distaccati da ciò che si vede/vive.
L’osservatore e l’osservato entrano in comunione nel momento dello scatto. Nel rimanere distaccati è come se ci autolimitassimo soltanto all’uso degli occhi….
Ma abbiamo anche un Cuore, le nostre emozioni, la nostra sensibilità, che ci faranno sempre prediligere una tipo di fotografia ad un’altra.
Grazie,
Marco
Edoardo 15 Aprile 2012 at 18:48
Non so Antonio… non so cosa intendi per essere cinico. Credo che il compito di un fotografo sia quello di raccontare e la storia raccontata può essere un festival in India o una ragazza morente di anoressia. Ovviamente il coinvolgimento emotivo sarà diverso, ma penso che ci sia in entrambi i casi. Credo che si riesca a cogliere nella visione dello scatto la differenza tra un approccio ‘distaccato’ e uno ‘coinvolto’. Ma è una considerazione decisamente personale…
Edoardo 15 Aprile 2012 at 18:51
Credo anche io come te, Marco, a una sorta di empatia che si crea tra chi fotografa e chi si sta fotografando…
Sandro Rafanelli" rel="external nofollow">Sandro Rafanelli 15 Aprile 2012 at 19:06
Grazie della risposta 😉
L’argomento è sì complesso, non vorrei però che il mio “distaccato” fosse sintetizzato con un “freddo”, intendevo riferirmi alla capacità di lettura critica delle cose che evita l’imposizione di sé. Perchè vedo molti reporter che fotografano se stessi più che un mondo pseudo-sconosciuto da scoprire scardinando i proprio schemi affettuosamente protetti. Personalmente non credo nè all’approccio iper patetico nè a quello di freddo etnologo.
La stessa Sontag scrisse: “… come la macchina fotografica è un’idealizzazione della pistola, fotografare qualcuno è un omicidio idealizzato, un omicidio in sordina, proprio di un’epoca triste, spaventata (una delle situazioni in cui già si sta passando dalle pallottole alla pellicola è il safari fotografico che sostituisce il safari con i fucili).”
Edoardo 15 Aprile 2012 at 21:19
Non credo, Sandro, che un fotografo (almeno nell’accezione personale e forse un po’ ‘romantica’ che ho del termine’) possa mai essere un ‘osservatore’ obbiettivo della realtà. Alla fine benché sia indubbio che si fotografa solo la realtà questa sarà comunque condizionata dal ‘momento decisivo’ proprio di colui che sta scattando. La visione fotografica è per sua natura ‘limitata’ ed è il fotografo a decidere quale parte del tutto inserire. E cosa fa prendere queste scelte se non la propria sensibilità?
Giuseppe Giuttari" rel="external nofollow">Giuseppe Giuttari 19 Giugno 2012 at 12:04
Grazie di cuore per questa bellissima lezione, non solo di fotografia ma anche di vita.
Giuseppe