Quale futuro per la Fotografia?
Il Paris Photo si è appena concluso. Come ogni anno è stato fonte di ispirazione, ma anche di profonde riflessioni. Durante il mio rientro a Firenze ho avuto modo di sedimentare ciò che ho visto e ho voluto condividere alcuni pensieri, uno su tutti: qual è il futuro della Fotografia?
Ma facciamo una premessa. La fiera di Parigi coinvolge prevalentemente editori, galleristi e qualche agenzia fotografica più o meno nota. Visitando gli stand all’interno del Gran Palais ciò che vediamo sono ‘stampe’ di opere ‘artistiche’ dove la fotografia è solo un mezzo per ottenere ‘altro’ (sono costretto a mettere le virgolette perché non trovo delle parole alternative per descriverle). Certo, ogni tanto qualche galleria espone delle Fotografie, dove gli autori sono i classici del ‘passato’: Salgado, Bresson, Gruyaert, Giacomelli, Larrain e altri del vecchio conio per dirla in chiave monetaria. Tutto il resto è un misto tra pittura, scultura, AI generativa o fantasiose istallazioni (complimenti ai creativi). Il denominatore comune è: sorprendere, trasgredite, colpire il visitatore in nome del ‘fare arte’. Ed è proprio questo soggetto, arte, che mi ha particolarmente spinto a riflettere. La fotografia – o almeno una certa parte di essa – sta prendendo questa tangente a scapito della funzione documentaria e ritrattistica che, dalla nascita, è la sua impronta identitaria. Ovviamente non c’è niente di male, anche i Pittorialisti agli inizi del secolo scorso cercarono questa strada per ridare dignità a qualcosa che era diventato troppo popolare e quindi di scarso valore. Poco dopo però, si tornò alla straight photography, una fotografia diretta colta nel suo divenire.
Ma quali sono le ragioni, oggi, di questo profondo cambiamento? C’è veramente l’esigenza e la necessità di stravolgere i canoni ‘classici’ per esplorare nuovi linguaggi e forme di comunicazione? Si può giustificare il lavoro Putin’s Dream di Carl De Keyzer, fotografo Magnum, che ha ‘documentato’ il dietro le quinte della guerra in Ucraina, visto dalla parte di Putin, pubblicando un libro in edizione limitata con immagini generate da intelligenza artificiale perché non è stato in grado ad andare di persona? (Aveva, a tal riguardo, pubblicato un post su Instagram promuovendo la prevendita del libro. Le critiche pesanti nei commenti di fotografi della stessa agenzia, Kalvar su tutti, probabilmente hanno fatto fare marcia indietro all’autore che ha tolto il post pur mantenendo il pre order sul suo sito). Insomma: perché anche importanti agenzie di foto giornalismo stanno stravolgendo il loro assetto visivo? Veramente è il linguaggio che cambia e si evolve oppure c’è altro?
Beh a mio avviso credo sia solo una bieca scusa che niente ha a che vedere con lo stare al passo con i tempi moderni. E’ evidente che il foto giornalismo da qualche anno sta attraversando una profonda crisi. E’ sempre più difficile vendere servizi. C’è sempre meno interesse di giornali e riviste a queste notizie. Nel pubblico c’è una sovraesposizione di immagini fruibili in modo immediato grazie ai social. C’è una crisi economica in atto verso questo settore. Si cerca quindi di trovare delle alternative per sopravvivere e, spostarsi nel campo dell’arte dove il prezzo lo fa il gallerista e non sempre legato alla qualità del prodotto, può essere una valida via di fuga. Questo è un problema? Assolutamente no basta essere sinceri e dirlo senza ambiguità, ma non spacciateci per ‘nuovo linguaggio’ un reportage prodotto da un algoritmo. E’ una deriva pericolosa. Se passa questo messaggio allora la prima guerra del Golfo avrebbe potuto trovare giustificazioni ‘reali’ sostenute da immagini generate di armi chimiche delle quali si diceva che Saddam avesse gli arsenali pieni.
Questa mia riflessione non si ferma alle fotografie prodotte ma anche alla carta stampata. Ho passato due giorni nel Bateaux Polycopies sulla Senna sfogliando centinaia di ‘opere’, la maggior parte delle quali veramente improponibili. Il contenuto fotografico era secondario al contenitore. ‘Libri’ che venivano proposti a invoglianti edizioni limitate a 100 pezzi come a sottolineare l’esclusività dell’oggetto, ma che, forse, se a fine fiera ne avevano vendute un paio, l’editore o l’autore sarebbe uscito contento. Salvo qualche rara eccezione – Sobol e Magnum – anche in questo caso la fotografia era un contorno. Immagini incomprensibili, grana digitale grossa come chicchi di riso, mossi costanti, fotografie sfumate e solo accennate, rilegature fantasiose e impossibili da sfogliare. Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere scriveva la Arbus e come non condividere il suo pensiero, ma nei molti lavori che ho visto c’era molto ‘segreto’ e poco racconto. Spesso si riducevano soltanto a dei meri esercizi di stile non supportati da forti ragioni oggettive e consone al progetto.
Quando mi fermavo a chiedere il perché di certi libri le spiegazioni duravano delle mezz’ore. Le storie erano simili tra loro: la casa della nonna defunta, la sorella morta suicida, una lettera scritta da una medium su cui costruire una storia, il compagno drogato e poi: nudo, tanto nudo e sesso, tanto sesso scimmiottando Araki, D’Agata, Ackermann, Goldin, Bogren. Per carità qualche lavoro era anche interessante, ma i cliché erano sempre gli stessi.
Sono giunto a pensare che trasgredire, oggi, vuol dire, paradossalmente, il ritorno a un approccio visivo classico. Un po’ come i tatuaggi: fa più tendenza chi non ce li ha. Robert Frank nel 2024 sarebbe stato un innovatore tanto come lo fu a suo tempo. Insomma in questo marasma la mia domanda iniziale continua a non avere una risposta certa. Forse una risposta non esiste o forse il futuro della Fotografia sarà un ritorno al passato. Qualunque sia il destino di questa forma espressiva spero che conterrà delle contaminazioni di contemporaneità miscelate a immagini leggibili, il vecchio equilibrio tra ‘mente, occhi e cuore’.