Intorno alla fotografia di matrimonio

Con questo articolo iniziano una serie di ‘incontri cartacei’ sul tema matrimonio. Ovviamente legato alla fotografia visto che è anche la mia professione.

 

Le origini

Partiamo ripercorrendo un po’ la storia della fotografia di matrimonio per sommi capi. Il primo servizio fotografico commissionato (del quale il fotografo resta sconosciuto) per fotografare le nozze sembra essere stato quello relativo al matrimonio – 10 Febbraio 1840 – tra la Regina Vittoria e il suo consorte Alberto di Sassonia. Un ritratto posato – e non poteva essere altrimenti visto che Talbott ‘inventò’ la fotografia solo l’anno prima e i tempi di scatto erano ancora di qualche minuto – dove si vedono i due coniugi in abiti nuziali uno di fronte all’altro in una staticità obbligata dai limiti tecnici necessari per impressionare la lastra fotosensibile. Fino ad allora i ritratti erano prerogativa della pittura, tanta nobiltà si era fatta immortalare in quadri che raccontavano il giorno delle nozze, ma con l’avvento della fotografia la mano passò al fotografo e quelle nozze sancirono di fatto la nascita di una nuova professione, con tutti i limiti dei primordi ovviamente, quella del fotografo di matrimonio.

Una fotografia di famiglia della Regina Vittoria (autore sconosciuto)

Da quell’evento faccio un salto di circa 80 anni dopo quando la fotografia tutta ebbe un cambiamento epocale: nacque la Leica, la prima macchina fotografica versatile, pratica e leggera che montava rullini nel formato 35 mm (noto, appunto, anche come ‘formato Leica’): la prima mirrorless, anche se qualcuno pensa che siano nate oggi!. La sua maneggevolezza e la possibilità di sostituire i film con estrema semplicità ne fece la macchina principe del fotogiornalismo. Robert Capa fu uno dei primi fotoreporter a sfruttare i vantaggi che questa camera aveva. Con essa realizzò i suoi servizi più famosi.

Ritratti ufficiali di nozze di consorti reali. Fotografia di E. Rude

 

Tutto cambia, niente cambia

Gli anni venti erano anche quelli del Grande Gatsby, con feste incredibili, dove uomini e donne mostravano un’eleganza unica nel vestire. Si usciva dalla Grande Guerra e la voglia di divertirsi era forte. Fu un periodo talmente magico, particolare, vivo che addirittura oggi si organizzano matrimoni a tema ‘anni venti’, proprio per calarsi in un contesto storico che molti avrebbero voluto vivere. Ma, mentre nell’ambito del fotoreportage si assisteva a una vera e propria rivoluzione con servizi fotografici dinamici, cercando di entrare dentro la scena, di raccontare storie, di fissare la vita vera nel suo scorrere, i fotografi che si occupavano di matrimonio continuavano a scattare come si faceva nel secolo precedente: ritratti in posa sia della coppia che della famiglia. Ancora questo genere fotografico non era diventato una tradizione popolare; chi commissionava il servizio di nozze era la nobiltà e per loro la fotografia di matrimonio era ancora fortemente legata al ritratto pittorico. Se ci pensate ancora oggi le fotografie ufficiali dei reali non è che siano cambiate molto rispetto ad allora. Basti vedere quelle che Mario Testino ha fatto per le nozze dell’erede al trono della corona britannica, William.

Foto sopra a destra: Ritratto ufficiale del Principe William e della sua consorte Kate Middletone. Foto sopra: Ritratto ufficiale della famiglia reale inglese – Fotografie di M. Testino

 

Con il tempo la tradizione di farsi fotografare il matrimonio si diffuse trasversalmente, non era più un qualcosa di elittario, ma il servizio divenne cosa comune. Se però andiamo a sfogliare gli album di matrimonio – una pratica piuttosto recente introdotta nel momento in cui si è usciti dalla logica di fare ‘solo’ foto ufficiali – di una coppia sposatasi fino agli anni ottanta vediamo che le stampe sono per la maggior parte fotografie di coppia e della famiglia con tutto il parentato. Salvo qualche rara eccezione, gli scatti sono tutti in posa e costruiti ricercando delle location particolarmente suggestive o di tipo bucolico con la sposa immersa in campi di grano, tra i girasoli o sognante tra i papaveri a seconda delle stagioni. Servizi spesso coadiuvati da pannelli riflettenti per attenuare le ombre e da diversi assistenti necessari per rivedere il trucco e stendere a dovere l’abito nuziale. Erano necessarie ore di scatti prima di godersi il ricevimento con gli amici, tanto che era consuetudine vedere molti invitati tornarsene a casa a rilassarsi prima di andare nella location scelta per il pranzo o la cena nuziale. Questo modo di operare, come ho detto, è andato avanti invariato per decenni cercando di scimmiottare la fotografia di moda dei primordi, scatti patinati spesso ammorbiditi da un uso incondizionato del filtro flou.

Ritratti di matrimonio anni 70-80. Fotografi sconosciuti

 

Purtroppo, mentre la fashion photography si rinnovava continuamente grazie al genio di fotografi come Steichen, Horst P. Horst, Man Ray, Adolph de Meyer (primo fotografo assunto a contratto da Vogue), William Klein, Martin Munkácsi – autori che ispirarono i grandi fotografi contemporanei come Richard Avedon e Irving Penn – per non parlare di maestri con uno stile personalissimo (anche se talvolta discutibile) come Sarah Moon, Steven MeiselGian Paolo BarbieriHerb Ritts, Annie Leibovitz, Oliviero Toscani, Terry Richardson e ne lascio fuori certamente tanti altri, la fotografia di matrimonio restava al palo, sempre ancorata ai ‘soliti’ stereotipi datati. Ma questo era quello che offriva il mercato e questo era quello che i clienti si trovavano davanti andando a scegliere il fotografo. Il discriminante infatti nel commissionare il servizio non era la qualità estetica dello scatto, pressocché uguale indipendentemente da chi scattava, ma semplicemente il prezzo.

Un ritratto eseguito dal fotografo Martin Munkácsi

Un ritratto eseguito dal fotografo Gian Paolo Barbieri

 

Qualcosa di nuovo

Fu solo verso la fine degli anni ottanta che iniziò ad affacciarsi sul mondo del matrimonio un approccio nuovo, diverso alla fotografia: il reportage. Non voglio autoincensarmi o peccare di presunzione, ma – e metto le mani avanti perché allora non c’era la possibilità o comunque non era così facile conoscere i lavori di fotografi matrimonialisti oltreoceano o anche intra europei – io fui tra i primi che cercò di proporre e introdurre qualcosa di diverso nella fotografia di matrimonio: non più una serie di scatti standard spesso fatti sfruttando le stesse location e quindi risultanti uguali anche per coppie diverse, ma realizzando dei servizi che sposavano l’idea del racconto. Quello che era nelle mie intenzioni non si limitava più agli scatti di coppia, che pur venivano fatti anche se con delle tempistiche fortemente ridotte (qualche decina di minuti) e basandosi assolutamente sulla spontaneità lasciando ‘liberi’ gli sposi di muoversi senza costringerli a pose innaturali e artificiose, ma ricercavo la storia, ossia cercavo di raccontare come il grande giorno si era svolto. Gli sposi, ovviamente, ancora protagonisti delle foto, ma non più in forma esclusiva. Le fotografie andavano oltre: raccontavano del luogo dove si erano preparati, dove avevano celebrato il rito e dove avevano organizzato il ricevimento. Cercavo l’interazione con gli invitati. Volevo cogliere le emozioni in una sguardo, in un sorriso, in un abbraccio, in un pianto. Anche il pranzo o la cena, che fino ad allora veniva fotografata limitandosi al taglio della torta (era consuetudine chiedere ai camerieri di far uscire la torta prima che iniziasse il ricevimento, per fare la foto del ‘finto’ taglio, in modo da liberare il fotografo) assumeva una rilevanza diversa. Mi piaceva raccontare gli sposi che, finalmente tranquilli, scherzavano con gli ospiti; i bambini che correvano nei giardini della villa affittata per l’occasione; gli anziani che occupavano per primi i tavoli apparecchiati pur essendo i posti già assegnati; i piccoli gruppetti di amici che ridevano magari ricordando aneddoti legati alla coppia. Ma non solo. Anche tutto il dopo cena aveva degli spunti interessanti da fotografare diventando così parte integrante del racconto: il primo ballo degli sposi, quello della sposa con il padre e dello sposo con la madre. Occasioni queste dove emergevano forte emozioni che si riflettevano negli occhi lucidi dei protagonisti. Insomma cercai di trasportare tutta la mia esperienza di fotografo documentario e reportagista che viaggiava il mondo raccontando di una festa religiosa in India, di un reportage sociale in Sudamerica o del backstage di un concerto rock anche nel matrimonio che, nelle mie intenzioni, cercavo di interpretare alla stregua di un qualsiasi altro evento che ero, appunto, solito fotografare.

La preparazione della sposa. Non ci si limita più alla foto di lei vestita che guarda dalla finestra o che è distesa sul letto. Fotografia di Edoardo Agresti

Il backstage della festa nuziale. Non più foto stereotipate e costruite, ma scatti naturali colti nel loro divenire. Fotografia di Edoardo Agresti

Nel matrimonio si racconta non più solo lo sposo e la sposa, ma anche tutto il contesto. I parenti, gli amici, i fornitori gli ambienti dove si svolge l’evento. Fotografia di Edoardo Agresti

Oggi tanti colleghi adottano, o ritengono di adottare, uno stile foto giornalistico nel realizzare i loro servizi di matrimonio anche se, a mio modesto avviso, non è sufficiente non fare foto in posa per essere dei bravi reporter. Fondamentale è la capacità di raccontare per immagini, usare il linguaggio della fotografia per rendere unica e personale la storia di quel giorno. Talvolta le fotografie che vedo mancano di questa autorialità. Lavori che, invece di essere tagliati sulla coppia e sul mondo in cui sono calati, si limitano a ricalcare scatti visti sui social o sui blog di tendenza, alla ricerca non di un proprio stile, ma di un’approvazione dettata dalla moda del momento. In questo modo si perde l’idea che sta alla base del reportage – cioè il racconto di un vissuto vero e personale – e si perde anche l’impronta dell’Autore snaturando così il ruolo del fotografo come artista. Questo ci riporta indietro nel tempo, quando la scelta del fotografo era condizionata solo dal prezzo, dato che i prodotti offerti – pur con degli standard qualitativi molto più alti di allora – si distinguono solo per l’uso di una diversa post produzione. E qui si aprirebbe un capitolo che magari approfondiremo in seguito: quanto sia la post produzione e fare il fotografo e non i suoi scatti.

 

La mia fotografia, il reportage

Ma torniamo alla mia visione della fotografia di matrimonio. E’ ovvio che la mia fotografia non sia più quella di 30 anni fa, anche perché io non sono più la stessa persona di allora. Fotografare vuol dire infatti mettere una parte di noi in quello che facciamo, è ‘un modo di vivere’ per dirla alla Bresson e io, nel tempo, sono cambiato. Non parlo solo dal punto di vista fisico – adesso ho qualche ruga intorno agli occhi e qualche chiletto in più – ma sono un uomo diverso, forse più consapevole del mio lavoro, meno approssimativo. I miei continui studi sulla Fotografia, il mio leggere dei grandi maestri del passato, la mia ricerca di nuovi autori con un approccio contemporaneo allo scatto mi hanno dato degli strumenti per affinare il mio linguaggio. La mia fotografia, pur mantenendo il filo conduttore del reportage – raccontare la storia di ‘quella’ coppia nel ‘loro’ giorno – si è avvicinata anche a un’idea più contemporanea del wedding, miscelando uno stile fotogiornalistico classico con uno più moderno.

Una fotografia sempre in linea con l’idea del racconto, ma con una visione più personale del reportage. Una ricerca di contemporaneità nello scatto con tagli diversi da un’impostazione classica. Fotografie di Edoardo Agresti

 

Alle mie contaminazioni giovanili di autori classici quali Steve McCurry, Alex Webb, Alan Harvey, Elliott Erwitt, Ferdinando Scianna fotografi che niente hanno a che vedere con il matrimonio ma che hanno un modo personalissimo di fare del fotogiornalismo, ho aggiunto giovani fotografi con delle visioni diverse talvolta anche troppo estreme come Antoine D’Agatà, Cristina De Middel, Richard Moss, Evgenia Arbugaeva, Martin Bogren, Sobol, Pellegrin. Questi autori, ma ce ne sono tanti altri, che hanno un linguaggio molto diverso dal racconto fotografico classico sono degli stimoli a riflettere su modi diversi di fare reportage. Lo studio della loro fotografia e dell’idea che sta dietro un loro lavoro non ha lo scopo ultimo di copiare qualche loro scatto – tra l’altro nessuno di essi è un matrimonialista anche se forse avranno fatto servizi per qualche matrimonio – ma vuole essere un modo per lasciarsi contaminare.

Anche nel ritratto cerco di giocare su tagli particolari giocando anche sulle forme geometriche sottolineate da luci e ombre. Fotografie di Edoardo Agresti

 

Un’influenza spesso inconsapevole che contribuisce in modo determinante a formare e a far crescere un linguaggio personale. Quando guardi un loro lavoro la tua mente non resta indifferente. Immagazzini il loro uso della luce, la loro composizione dell’immagine, i tagli che hanno dato alla scena, la seguenza narrativa nello svolgersi di una storia e questo agisce nel tuo inconscio. Nel tempo ti accorgi che scatti in modo diverso e quello che realizzi è solo tuo perché hai fatto una sintesi di tutto ciò che hai visto. Questo accrescimento non consapevole, avviene non solo quando si guardano altre fotografia, ma anche osservando dei quadri, ascoltano della musica, vedendo dei film o leggendo dei libri. Concetto espresso chiaramente anche da Ansel Adams quando dice, appunto, che una fotografia è il risultato di una miscelazione di tutto questo. A chi mi chiede qualche consiglio su come migliorare la propria fotografia dico sempre: studiare, studiare, studiare.

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