Il Ngdet, la festa della Madonna per i cristiani copti in Eritrea
E’ sempre più difficile scoprire luoghi incontaminati della terra dove sopravvivono reali e genuine tradizioni, culture, feste, senso di ospitalità e accoglienza. Altrettanto difficile è fotografarli, talvolta perché inaccessibili, talvolta perché ti scontri con delle assurde burocrazie para militari che ti impediscono di ottenere i permessi necessari allo scatto e ti costringono a muoverti in modo alternativo con tutti i rischi che ne conseguono. Sebastiao Salgado nei suoi sette anni di peregrinare ha raccontato la Terra nella sua purezza, un incontro con le origini della Natura e ne ha fatto un libro, Genesi. Jimmy Nelson ha incontrato popolazioni che stanno scomparendo e le ha ritratte – devo dire in modo piuttosto discutibile – nei loro costumi tradizionali realizzando Before they pass away. Io, nel mio modesto e silenzioso viaggiare, sto cercando di raccogliere, nel progetto Once upon a time… today, quella real life legata allo scorrere della vita quotidiana di situazioni in cui il tempo sembra essersi fermato in un indefinito passato e che continua ad esistere oggi così come era ‘una volta’. I costruttori di mattoni in Yemen, la raccolta del tè in Malawi, le risaie in Vietnam, gli impagliatori di cesti in Sri Lanka, la ‘vita’ in alcuni villaggi in Kenya e India, la lavorazione della sisal in Tanzania, i mercati del Mozambico e altro ancora in diversi paesi tra Africa e Asia. Un viaggio fotografico lungo ormai nove anni e che spero presto si possa concretizzare in una pubblicazione. Come dice Scianna, le fotografie hanno un senso se entrano a far parte di un album di famiglia o se vengono raccolte in un libro.
Nel portare avanti questo lavoro ho voluto utilizzare la fotografia all’infrarosso perché credo riesca a raccontare meglio di altri linguaggi dell’immagine questa sospensione temporale, questa assenza di un contesto associabile ad una data precisa. Scatti fatti ‘oggi’ che raccontano il ripetersi di scene vissute in un passato che sembra essere un continuo presente.
In questo mio raccontare sono giunto in Eritrea, un paese in cui il tempo sembra essersi fermato; lì mi sono imbattuto in una delle feste più belle e più suggestive cui abbia ricordo di aver mai partecipato. Sarebbe stato interessante utilizzare l”infrarosso’ perché ben si sarebbe inserita nel mio progetto, ma iniziando a scattare, mi sono reso conto che questa tecnica, invece di aggiungere avrebbe tolto qualcosa. Allora ho lavorato con il colore, con quel modo di vedere il mondo che mi è più congeniale e che, in questo caso meglio di altro, ha avuto la capacità di descrivere quello che stavo vivendo.
In un periodo variabile tra la fine di novembre e i primi di dicembre la chiesa copta festeggia in Eritrea il Ngdet, il giorno di Maria, la Madonna madre di Gesù. Ho avuto l’opportunità di seguire l’evento in un piccolo villaggio a circa 100 km dalla capitale eritrea in una delle più antiche e affascinanti chiese copte del paese. Le preghiere iniziano a notte fonda. Una cantilena senza tregua accompagna i preparativi alla messa che vede l’inizio alle prime luci dell’alba. Il vescovo presiede la liturgia, mentre si alternano alla parola preti più giovani che commentano pagine del Vangelo. Per oltre tre ore la cerimonia si svolge all’interno della piccola chiesa accessibile solo ad un numero molto limitato di fedeli; la voce dei lettori viene amplificata nel piazzale circostante da striduli e fischianti altoparlanti. Una folla composta di uomini e donne, vestiti di bianco, debitamente e rispettivamente suddivisi a sinistra e a destra dell’ingresso, ascolta in religioso silenzio e ogni tanto risponde in coro alle invocazioni dei lettori.
Intanto una luce quasi mistica inizia a illuminare la folla. Sono felice di poter scattare, di essere fotografo, di avere la possibilità di fissare nella mia memoria e in quella del tempo, questo momento unico, magico, indescrivibile a parole. Dei raggi di sole colpiscono alcuni anziani preganti con una specie di breviario in mano che si staccano, per un gioco di controluce, dall’ombra dello sfondo più scuro. Le donne dal lato opposto pregano a braccia aperte invocando intercessioni divine.
Alle spalle dei fedeli un gruppo di persone sta lavorando alla preparazione del zebel, il cibo benedetto che consiste nell’ingera, il pane nazionale, una sorta di grande crepe di farina, lievito e acqua fatta fermentare per alcuni giorni; lo zighinì e lo scirò a base di carne e la sua, la birra locale ottenuta dalla fermentazione di un cereale; altri con dei grandi mestoli stanno ‘girando’ una zuppa di lenticchie in fumanti pentoloni bollenti. Sarà il pranzo che la comunità religiosa offrirà a tutto il paese e ai vari parenti e amici che si ritrovano per festeggiare il giorno della Madonna, dopo essersi ricongiunti alla famiglia avendo camminato per ore da villaggi più o meno limitrofi.
Intanto la cerimonia va avanti fino a quando si apre la porta principale della chiesa e qualcuno inizia ad uscire. Prima appaiono timidamente dei bambini che, una volta all’aperto, aprono degli ombrelli colorati e ricamati con immagini di Gesù e della Madonna; altri portano il quadro con l’icona della Vergine, il tabot. Poco dopo fanno l’apparizione alcuni uomini con un particolare copricapo che ne identifica il loro essere preti. Sorreggono la tipica croce copta e portano dell’incenso il cui profumo si emana dolce e pungente nell’aria. Infine esce il vescovo che si stacca, nel suo vestito rosso, dal bianco dominante di tutti coloro che lo circondano.
Si forma un corteo. I bambini in testa, poi alcuni giovani con tamburi e altri strumenti musicali e infine i preti che sorreggono il vescovo il quale deambula con difficoltà, forse perché stanco dalla notte insonne e dall’età. Un silenzio generale precede la partenza della processione che inizia poco dopo scandita dal ritmo dei tamburi e dai canti dei fedeli. Girerà tre volte intorno alla pianta circolare della chiesa e ad ogni giro donne e uomini si uniranno al corteo. Seguiranno i discorsi finali nell’entusiasmo dei presenti.
La parte religiosa della festa giunge al termine, le lenticchie sono pronte e piatti d’ingera iniziano a essere distribuiti tra i presenti. Molti restano a mangiare intorno alla chiesa altri si incamminano verso le loro abitazioni per accogliere gli amici venuti per condividere il giorno di festa. Vengo invitato in una di queste famiglie, anzi in molti sembrano contendersi la mia presenza, sono un ospite ‘straniero’ e soprattutto italiano. In molti in Eritrea rimpiangono con profonda nostalgia il passato coloniale quando l’Italia contribuì a costruire il paese nelle sue principali infrastrutture: nelle strade, nella ferrovia, negli acquedotti, nei ponti, nell’infondere una cultura imprenditoriale e non solo. Molto di quello che oggi rimane lo si deve al lavoro degli italiani e per questo ci trattano con un senso di forte riconoscenza.
Mi viene offerto il caffè il cui profumo mi è stato ‘presentato’ con il tradizionale rito accompagnato da pop corn di miglio e noccioline tostate. Il pranzo che segue è a base di ingera, lenticchie, carne di manzo e tanto berberè, una miscela molto piccante di nove differenti spezie tra cui peperoncino e cardamomo.
Il tempo scorre veloce, i miei pensieri – troppo frequenti e non belli di questo mio periodo – sembrano svanire nella loro casa; mi sento leggero in quella bellissima atmosfera familiare, seduto a condividere il pranzo comunitario in una stanza dalle pareti intonacate di un bellissimo blu cobalto che effonde serenità. L’azzurro riflette una lama di luce tagliente che entra dalla porta d’ingresso e illumina in modo divino un’anziana donna dallo sguardo pensieroso. Faccio un ultimo scatto, poi come svegliandomi da un sogno impossibile, mi alzo, ringrazio con il cuore e mi congedo.
Ho vissuto una giornata incredibile. I miei occhi hanno visto cose che, grazie alla fotografia, resteranno fissate nella mia mente per sempre. Non è stata la solita festa religiosa, ma qualcosa di più intimo e spirituale. Come ormai da anni mi accade, non riesco a vivere le emozioni del momento; purtroppo quando ho la mia Nikon al collo tutto viene filtrato attraverso le lenti dell’obiettivo. Ed è per questo che senza la fotografia tutto andrebbe perduto dentro di me. Credo che quando rivedrò gli scatti nel silenzio del mio studio, sarà allora che con prepotenza saliranno quelle sensazioni che inconsciamente la mia mente ha registrato. Ecco perché mi sforzo di vedere il più possibile, di guardarmi intorno, di muovermi alla ricerca della luce migliore che si stacca dalle ombre, di cogliere degli attimi, degli sguardi, dei dettagli e di farlo al meglio delle mie possibilità perché sarà solo grazie a quegli scatti che avrò la possibilità di vivermi le emozioni che non riesco più a sentire nel tempo reale dell’evento. La mia fotografia è egoistica, prima scatto per la mia anima e poi per coloro che avranno la pazienza di ‘leggermi’. Solo se le mie fotografie avranno questa capacità di raccontare allora potrò godere delle bellezze del mio viaggiare e di quello che avrò visto. Non sempre ci riesco, ma i miei occhi lucidi nel riguardare le immagini selezionate mi fanno capire che qualcosa, questa volta, sono riuscito a fare.
Buona luce