Ecco la storia di Ronaldo e Teresa
Eu daria a minha vida/Para te esquecer/Eu daria a minha vida/Pra não mais te ver/Eu daria a minha vida/Para te esquecer/Eu daria a minha vida/Pra não mais te ver[Darei la mia vita/Per dimenticare te/Darei la mia vita/Per non vederti/Darei la mia vita/Per dimenticare te/Darei la mia vita/Per non vederti]
[Eu Daria a Minha Vida/Io darei la mia vita, di Roberto Carlo, 1967]
Tutti i giorni, come da una settimana a questa parte, cammino sotto un viadotto nel centro di San Paolo per portare avanti il mio progetto fotografico su una palestra un po’ inconsueta, particolare fin dalla sua nascita.
Tutti i giorni passo davanti ad un ammasso di cartoni che, lungi dai miei pensieri, ho realizzato dopo un po’ essere la casa di due persone. Mi muovo in un ambiente nuovo, mi porto dietro un carico di pregiudizi, sono influenzato da racconti poco ortodossi su rapine e violenze cerco, quindi, di passare alla larga da luoghi eufemisticamente ‘imbarazzanti’, e cerco di trovare un ‘rifugio’ sicuro come la palestra dove sto andando. Però spesso, la curiosità e la voglia di fotografare prevale sul buon senso o su quello che sembrerebbe essere tale. Mi avvicino, impugno la macchina e scatto qualche posa a una donna, dal discutibile abbigliamento, che sta uscendo dal quel mucchio di cartoni. Lei mi guarda prima sorpresa e poi inizia a muoversi verso di me. Gesticola e sembra urlare in un modo strano, gutturale. La mia prima reazione è quella di fuggire, forse è ubriaca o fatta di crack; forse vuole portarmi via la macchina fotografica, magari sta chiamando altri per assalirmi. Tutti in San Paolo mi dicono di stare attento, che le rapine a mano armata di pistola o coltello sono all’ordine del giorno, fatte in mezzo alla folla, da persone insospettabili. Io non percepisco pericolo, ma noto il mio ‘fixer’, che mi accompagna per tutto il giorno, chiudere i finestrini dell’auto quando ci fermiamo ad un semaforo, mettere nel bagagliaio anche un sacchetto di arance quando parcheggiamo, non indossare un orologio e consultare il cellulare in modo molto discreto. Forse devo stare attento o forse devo fidarmi di più del mio sesto senso: Teresa, così si chiama quella donna dall’eccentrico abbigliamento e dalla ‘parlata’ sillabica è solo muta e sta cercando di salutarmi.
Non lo scopro subito, ma il giorno seguente quando mi avvicino nuovamente mettendo questa volta da parte i miei timori e pregiudizi e mi fermo a salutarla. E’ in compagnia di Rolando, il suo compagno. Il saluto, che nelle mie intenzioni voleva essere semplicemente un veloce gesto di cortesia, dura di fatto tutta la giornata e mi introduce ad un racconto incredibile.
Ecco la storia di due senza tetto Ronaldo Marcelino Otaviano e Teresa Maria Barreto abitanti in una casa di cartone con civico sconosciuto sotto al viadotto Machado in San Paolo.
Mi avvicino mentre lui sta cantando una melodia triste che ritrovo poi su youtube, Eu Daria a Minha Vida di Roberto Carlos. Una canzone del 1967. Piange come un bambino, le lacrime scendono copiose ogni volta che intona il ritornello. Aveva poco più di venti anni quando quella musica veniva suonata da gracchianti giradischi con le puntine che strisciavano sul nero vinile. Gli chiedo il perché di questa sofferenza e lui mi risponde che ‘allora’ aveva tutto e adesso niente. Poi guarda Teresa e un timido sorriso gli accende il volto segnato dalle lacrime. Lei gli si avvicina, prende un kleenex e lo asciuga con delicatezza, quasi a portare via i tristi pensieri di un lontano passato. Aveva una moglie, dei figli, una bella casa, degli amici. Poi il dramma dell’alcol e la discesa verso un abisso sempre più profondo. La sua dipendenza gli fa perdere prima il lavoro – lucidava le macchine in un autolavaggio – e poi la moglie e i figli, che stanchi del suo essere sempre ubriaco, lo buttano anche fuori di casa. Perde tutto, soprattutto perde il loro rispetto e il loro amore. Sono quasi trent’anni che non li vede e non sa più niente di loro anche se custodisce gelosamente una loro foto che Teresa mi mostrerà più avanti. Si ritrova in mezzo alla strada e la sua dimora diventa una coperta di lana grossa; qualche sacchetto di plastica raccoglie i suoi vestiti e le sue giornate passano da una stato di semi coscienza all’altro. Il suo mondo diventa il viadotto Machado dove nascerà, molti anni dopo, l’accademia di boxe Garrido, il fulcro iniziale del mio progetto.
Teresa è una simpatica donna, non sa dirmi la sua età, ma probabilmente ha oltre 60 anni. La sua storia è diversa da quella di Ronaldo, non è alcolizzata ma il suo essere sordo muta le ha impedito una vita normale e costretta, da questo handicap, a vivere anche lei sotto un ponte. Capisco da come gesticola, che non le piace parlare del suo passato, riesco a intuire che non vuole più rimanere incinta e me lo ‘dice’ accarezzando un gattino appena nato, uno scricciolo di pochi giorni che accudisce come se fosse quel figlio che forse non c’è più o che magari non c’è mai stato.
Ronaldo viene colpito da un ictus che gli crea una semi paralisi alle gambe e gli impedisce di parlare correttamente. Non so se questo accade prima o dopo il loro incontro oppure se è proprio a causa di questo problema che le loro strade si sono unite. Fatto sta che queste due anime che vagavano senza fissa dimora e senza una meta sotto i viadotti della città, si toccano e decidono di camminare insieme. Non so se per amore o semplicemente per non essere più soli – in due si sopravvive meglio – ma sono oltre 25 anni che la loro storia va avanti.
Lui mi racconta con un misto di orgoglio e tenerezza che LE ha costruito la casa con le sue stesse mani. Eh sì, quella cosa che ai miei occhi era solo un’accozzaglia di cartoni, plastica e sacchetti della spesa usati era la loro casa, il loro rifugio, il luogo dove decidono di condividere il loro futuro. Lei, come una moglie devota e riconoscente, si prende cura di ‘arredare’ quello spazio con piccoli oggetti e suppellettili. Mi mostra anche il suo giardino che ha coltivato con passione prendendo delle piantine gettate nella spazzatura perché ormai considerate morte.
Rimango stordito da questa coppia, resto attonito a sentire la loro storia. Rimprovero a me stesso di essere fuggito davanti a una donna così dolce e sensibile. Un turbinio di emozioni cresce dentro di me. La mia anima viene rapita e i miei pensieri sono fuori controllo. Scatto, li fotografo continuamente, voglio che le mie fotografie siano la memoria delle loro parole. Voglio che ogni lacrima, sorriso, gesto di affetto, abbraccio non vada perduto, ma resti impresso da ogni click della macchina. So che solo fotografandoli potrò mettere queste emozioni nel mio personale salvadanaio di ricordi. So che se non lo facessi qualcosa andrebbe perduto dentro di me per sempre.
Vicino alla loro casa c’è un centro sociale, un posto dove molti senza tetto del viadotto vanno per farsi una doccia, per mangiare, per guardare qualche film in compagnia, per far sì che il loro tempo abbia un minimo di significato. Non so se è un luogo di recupero, non credo, ma non per colpa dei volontari che ci lavorano, ma perché le persone che lo frequentano hanno ormai superato da tempo quel punto di non ritorno che come un vortice marino ti risucchia verso il buio e dal quale solo la morte ti lascerà libero.
Ci incamminiamo insieme. Teresa deve portare Rolando a fare una doccia. Lui cammina con l’aiuto di un bastone e una stampella, ma non è in grado di lavarsi da solo. Teresa non fa parte di quelle persone che, emarginate dalla vita, ormai hanno perso qualsiasi forma di dignità, è e rimane una donna. Così prima di uscire si mette il rossetto, aggiusta la sua camicetta e prende la borsa. Adoro questa parte maliziosa, questa civetteria femminile che oggi molte hanno perduto.
Lo prende sotto il braccio e lo aiuta a camminare. Lui reagisce, vuol far vedere che non ha bisogno di lei, sembra arrabbiarsi ma si percepisce che è quasi una sorta di scena, di gioco dei ruoli che si ripete ogni giorno. Lei mi guarda, allarga le braccia e ben attenta a non farsi vedere da Ronaldo porta l’indice della mano destra alla tempia e lo fa ruotare. Un sorriso complice accende i suoi occhi. Lungo la strada tutti li salutano, il benzinaio, il fruttivendolo qualcuno anche dall’auto in corsa.
Mi riempie il cuore di dolcezza parlare con loro, intuire dal modo in cui Teresa muove le mani quello che vuole o forse ha anche il bisogno di raccontare. Arriviamo al centro sociale, il viadotto è lo stesso sia della palestra che della casa di Teresa e Ronaldo, ma l’aspetto è profondamente diverso. Sedie rotte, divani unti e bisunti, vomito, bottiglie di plastica ovunque ma soprattutto un’orgia di corpi dormienti o semi coscienti che solo per un fattore anatomico si possono chiamare persone. Non c’è più niente di umano in questo spettacolo. Uno mi guarda e in un inglese stentato mi dice welcome to hell. Teresa mi fa cenno di seguirla, lei non si sente e non lo è, parte di questo inferno. Porta il suo compagno in doccia. Io mi defilo, mi volto a guardare quella parvenza di vita, quell’ammasso indefinito di spazzatura che mi circonda. Un odore acre di sudore, alcool, crack e marijuana mi investe con violenza. Cerco di instaurare un dialogo con alcuni di loro, di comunicare e talvolta di capire, ma mi imbatto in discorsi sconfusionati, senza una logica apparente. Forse ricordi di qualche episodio del loro passato, forse qualche preghiera, forse qualche richiesta di aiuto, non so. Passo con loro l’intera giornata e voglio, anche in questo caso, aggrapparmi alla fotografia per non dimenticare e per comunicare sia a me stesso che al mondo che esiste una realtà diversa rispetto alla patinata pubblicità della famiglia felice tante volte raccontata in costosi spot pubblicitari.
Il mio progetto nella palestra va avanti. Tutte le mattine torno lì per cercare di cogliere qualche aspetto nuovo, diverso, che possa aggiungere qualcosa al mio racconto. Mi fermo a salutare Teresa e Ronaldo. Lei a volte non c’è, va a lavare i vestiti per suo marito. Lui resta ad accudire il gattino. Hanno usato una piccola scatola di cartone come cuccia e un pezzo di stoffa lo protegge dal freddo. E’ una sorta di miniatura della loro abitazione. Lui con il suo fare brontolone tutte le volte che mi vede con la macchina fotografica in mano scuote la testa e si porta le mani al volto come a dire ma cosa avrà questo da fotografarmi. Non si rende conto e forse non lo potrà mai capire, che mi sta facendo del bene, lui che crede di non avere più niente mi sta dando qualcosa che nemmeno l’uomo più ricco del mondo potrà mai darmi, mi sta regalando emozioni. Ringrazio Dio di avermi dato la possibilità di fare il fotografo, di scrivere il mondo con la luce, di poter raccontare prima a me stesso e poi a chi vorrà leggermi storie come queste.
Arriva la sera, esco dalla palestra dove ho appena finito di fotografare un allenamento di boxe. Di questo progetto ne parlerò più avanti, ma è strettamente legato alla vita del viadotto, è il simbolo del riscatto. E’ la prova che è possibile con un po’ di sacrificio e buona volontà ritornare a galla. Vi basti, per il momento, sapere che Garrido, il proprietario, era uno dei tanti abitanti senza tetto che era sprofondato nell’alcol e si era ritrovato anche lui sulla strada. Teresa sta cucinando. Un buon odore di sugo al pomodoro si alza nell’aria. Ronaldo sta parlando con degli ‘amici’ in attesa della cena. Anche questa storia e questo episodio è per certi aspetti una rivincita, una lotta per non lasciarsi sopraffare dal degrado e dall’inedia. Teresa non razzola nei cassonetti per trovare qualche avanzo della società ‘per bene’, lei cucina. Non so dove si procura tutte quelle cose fresche, ma è una bella persona e come ho già detto tutti in zona la conoscono e sembrano volerle bene.
Arriva il giorno dei saluti che mi prometto essere un arrivederci. Mi sono affezionato a quei due, al brontolone Ronaldo e alla signora Teresa. Passo a lasciarle della frutta fresca e alcune stampe delle fotografie che le ho fatto. Lei mi guarda, si batte la mano sul petto e mi ringrazia. Le chiedo come sta il ‘nuovo’ membro della famiglia, quel gattino bianco che stavano accudendo con amore. E’ morto! Me lo dice quasi con le lacrime agli occhi. Lui così piccolo non ce l’ha fatta. L’hanno sepolto nel giardino di casa sotto un’orchidea di plastica e la bandiera brasiliana. L’abbraccio. Mi stringe forte e mi bacia. Mentre sto scrivendo credo ancora di avere l’impronta del suo rossetto sulla mia guancia.
Buona luce
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