World Press Photo 2014, che invidia
Sono trascorsi solo pochi giorni dalla comunicazione dei vincitori dell’ultimo WPP ma già dalle prime ore – come ogni anno del resto – si sono moltiplicati articoli e condivisioni sui vari social network di chi è super contento dei risultati e di chi invece ne è rimasto molto deluso. E’ un po’ la stessa storia che accompagna ogni concorso, ovviamente più questo è importante e internazionale e proporzionalmente maggiori sono la eco dei giudizi in positivo e negativo.
Non voglio – anche perché non credo nemmeno di averne le competenze necessarie – entrare nel merito delle scelte della giuria che ha fatto comunque un lavoro immenso nella selezione e classificazione delle quasi 100.000 immagini pervenute. Mi limito a fare delle osservazioni sulla foto vincitrice e in generale su alcuni aspetti che mi lasciano perplesso, una sorta di pensieri a voce alta che ho piacere di condividere in rete con chi avrà la pazienza di leggerle.
La fotografia di John Stanmeyer, che da molte parti viene attaccata come una sorta di pubblicità di una compagnia telefonica, a me piace molto. Si esce dalla logica – rotta peraltro anche alcuni anni fa con le donne iraniane di Masturzo – di premiare foto legate alla guerra e alla morte come se soltanto questo aspetto fosse foto giornalismo. Prendo in prestito le parole di Alessia Glaviano – giurata in questa edizione del contest – che la descrive in modo sublime. ‘Un’immagine che ritrae un gruppo di migranti, di notte, sulla spiaggia di Djibouti che alzano i loro cellulari nella speranza di prendere il segnale dalla vicina Somalia. Djibouti è un punto di sosta comune per coloro che cercano di lasciare la Somalia, l’Etiopia e l’Eritrea per migrare verso l’Europa o il Medio Oriente in cerca di una vita migliore. È un’immagine straordinariamente poetica piena di simbolismo e significato. Le persone sono ritratte come sagome in silhouettes contro il buio della notte illuminata solo dalla luna la cui luce fa eco con gli schermi dei cellulari illuminati. E’ impossibile rilevare le caratteristiche del viso della gente, sono sconosciute proprio come la condizione della maggior parte di queste persone dimenticate dal mondo, lasciate appese tra una civiltà che non permette loro di sopravvivere e un’altra che non le consente di integrarsi. I telefoni cellulari, un’appendice necessaria a tutti noi, sembrano creare un ponte tra questi due mondi, tra noi e loro, tra passato e futuro.’ A questa bella analisi mi permetto di aggiungere un senso di attesa che questa immagine mi trasmette, non legata a rassegnazione bensì ad una sorta di speranza, nel futuro. Un ‘segnale’ positivo.
Detto questo ci sono alcune cose che mi lasciano un po’ stupito e perplesso. Mi è capitato di partecipare a letture portfolio condivise fatte da importanti photoeditor e/o fotografi internazionali e ho partecipato a workshop su come fare un corretto editing tenuti da personaggi molto noti nell’ambito della fotografia, tra l’altro anche giurati in precedenti edizioni del WPP. Beh quello che viene continuamente ribadito nella presentazione del proprio lavoro è l’importanza della successione delle foto – in particolare quella di apertura e di chiusura – e il fatto che ogni scatto deve necessariamente aggiungere qualche elemento descrittivo nuovo a quello che segue e che precede. Osservando molti dei lavori presentati in questa edizione del WPP questa considerazione non traspare anzi. Si osservano molte foto che sembrano addirittura doppie. Questo aspetto mi ha molto sorpreso.
Altra cosa. In ogni contest internazionale, dal POYi al PDN, si sottolinea come sia importante accompagnare ogni scatto da una corretta didascalia. Mi ricordo ad un workshop a cui partecipai un paio di anni fa, la master mi disse che la ‘caption’ è importante in egual misura alla fotografia e che nelle selezioni da parte della giuria questa lettura sia fondamentale. Se però osserviamo il lavoro di Carla Kogelman – vincitrice della sezione Observed Portrait – non ci sono di fatto didascalie. Qualcuno potrà obiettare che le foto non ne hanno bisogno perché si descrivono da sé; non so, avrei voluto conoscere un po’ di più del perché sia così interessante la storia di queste due sorelle che vivono in un villaggio dell’entroterra austriaco. Magari è solo la mia ignoranza a non percepire lo spessore di questo lavoro, ma così senza un approfondimento sulla vita di queste bambine non riesco proprio a coglierlo.
Ecco non mi addentro in altre analisi che lascio fare a critici, photoeditor, fotografi, appassionati, direttori di riviste, storici, professori e insegnanti con competenze ben superiori alle mie. Mentre, sarà poca cosa, ma voglio comunque complimentarmi con tutti i vincitori, in particolare con Akhter, quell’abbraccio tocca il cuore e le coscienze di ognuno di noi; con l’italiano Panella che ha colto un aspetto inconsueto di Gaza e con Lewkowicz per aver raccontato con lucida freddezza la violenza all’interno delle mura domestiche. Infine permettetemi anche una punta d’invidia, deve essere veramente una grande soddisfazione vedere il proprio lavoro nell’Olimpo del fotogiornalismo mondiale. Uno stimolo per riprovarci ancora.
Buona luce
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