Fotografia, quale futuro? (dal Contrasto Day di Firenze)
Sono appena rientrato dal Contrasto Day che ho seguito fin dai primi incontri del mattino. Ne sono uscito con una vena di tristezza, accentuata sicuramente dal mio stato d’animo, ma certamente avvalorata da quanto ascoltato. Nella tavola rotonda che apriva la giornata si sono alternate le voci delle 4 photoeditor tra le più importanti del panorama editoriale italiano: Tiziana Faraoni (L’Espresso), Renata Ferri (Io Donna e Amica), Emanuela Mirabelli (Marie Claire) ed Elena Boille (Internazionale). Coordinava l’incontro Robert Koch, il Direttore di Contrasto, e Sandro Bini patron di Deaphoto.
Apre gli interventi la Mirabelli con una considerazione che poi verrà ripresa dalle altre e che inquadra bene il periodo di profonda crisi che sta attraversando la Fotografia e in particolare il Fotogiornalismo oggi: ‘5 anni fa la mia rivista pubblicava almeno 5 reportage e un portfolio in ogni numero, oggi se va bene riesco a farne pubblicare uno’.
Continua dicendo che purtroppo la rivista non viene più ‘costruita’ nei contenuti dal direttore o dalla redazione, ma dagli inserzionisti pubblicitari. I magazine continuano a vivere solo grazie alla pubblicità – in Italia si legge quasi la metà che in Germania – e quindi sono loro a dettare la linea editoriale. E’ ovvio che a fronte di una campagna promozionale di una griffe di alta moda con immagini patinate di scarpe da migliaia di euro non troverà mai spazio un servizio sui bambini indiani scalzi e con le mosche agli occhi.
Personalmente credo che il problema della crisi del fotoreportage oggi non sia solamente legato a quest’aspetto anche se è un fattore decisamente importante. Credo che fondamentalmente al lettore medio non gliene importa più niente o molto poco della guerra in Siria, dei massacri in Centrafrica o degli scontri elettorali in Bangladesh. L’inserzionista propone dei prodotti che il mercato richiede o talvolta è lui stesso a creare i ‘bisogni’ nella gente e questi si scontrano con la fame nel mondo e similari. La stessa Faraoni quando parla del futuro del ‘suo’ giornale afferma che nelle riunioni di redazione si sta cercando di dare un prodotto diverso al loro lettore senza però avere ben chiaro cosa di nuovo fare. Quello che mi fa riflettere è proprio il non sapere da parte degli stessi addetti ai lavori quale potrebbe essere un futuro approccio professionale alla fotografia. Robert Koch sostiene che sarà sempre più importante puntare su un prodotto che sia un mix delle varie tecnologie e quindi la realizzazione di multimediali che comprendono video e immagini. Credo che anche questo sia una sorta di placebo da somministrare ad un malato terminale.
Il vero problema è che nessuna della 4 – con la sola eccezione della Boille la cui realtà editoriale è però veramente unica e indipendente da fattori esterni quali ad esempio la pubblicità – ha dato delle risposte che aprono degli spiragli verso un futuro possibile del fotogiornalismo. Se vogliamo anche la photoeditor di Internazionale pur muovendosi in un’oasi felice ha manifestato l’esigenza di comprare le fotografie da fotografi locali perché non ci sono soldi per degli assegnati. Ma soprattutto quello che mi ha meravigliato è che nessuna avesse dei consigli su cosa produrre. Tutte parlavano dell’esigenza di fare qualcosa di nuovo, di fresco, di non visto o già confezionato, ma nessuna ha detto cosa. Sta nei fotografi quindi inventarsi qualcosa, ma come? Se si esce dalla fotografia di news – peraltro già morta nella figura del fotografo professionale – si deve andare verso progetti a lungo termine con dei costi di realizzazione che ricadono interamente sulle spalle del fotografo. E anche se dopo mesi, talvolta anni di lavoro, si riesce a produrre del materiale interessante cosa ne facciamo? Non si possono fare reportage ‘pesanti’ perché poi nessuno ce li pubblica, non si può parlare di problematiche sociali perché il Dolce e Gabbana della situazione non ci permette la loro diffusione. Non si capisce quindi cosa deve fare o dove deve andare la fotografia.
Nel pomeriggio abbiamo visto dei bellissimi lavori di Giulio Piscitelli, Francesco Anselmi, Emiliano Mancuso e Simona Ghizzoni. Lavori che hanno portato via mesi se non anni per essere realizzati. Totalmente autofinanziati tramite grant o crowdfunding, ma poi? Siamo veramente certi che il documentario della Ghizzoni su una storia molte forte di donne imprigionate, violentate, torturate nel Sahara Occidentale dall’esercito marocchino trovi un interesse nell’essere diffuso? Le foto sulla drammatica situazione greca di Anselmi sono di una potenza incredibile. Un racconto forte che è figlio della crisi e che mostra una Grecia diversa dalle violenze di piazza. Lavoro ancora in progress ma che ha già impegnato l’autore per molti mesi. E dopo? Forse un libro, ma nella crisi generale dell’editoria chi è che lo vorrà pubblicare?
Insomma pensavo di uscire da questa giornata con delle speranze e invece sono entrato in una buia galleria. Chiudo con una frase detta da Bini presentandosi in apertura di giornata: ‘io facevo il fotografo ma siccome la fotografia non ti permette di vivere allora mi sono messo ad insegnarla’. Un curioso paradosso che mi ha fatto mestamente sorridere. Sarebbe come dire siccome non vendo più maglioni nel mio negozio allora mi metto a produrli.
Buona luce
P.S.: una cosa positiva però l’ho riscontrata, c’era veramente tanta gente e moltissimi giovani. Questo è bello perché ultimamente ai vari festival a cui avevo partecipato ero rimasto perplesso sulla scarsa presenza di pubblico. Ah ovviamente non ho visto (a parte 3 amici) nessuno dei miei colleghi che si occupano di fotografia di matrimonio. Altra occasione di confronto e crescita perduta.